08/01/10

IL VECCHIO VENANZIO

Venanzio, il guardiano dell’orto.


..Venanzio era un vecchio solitario e taciturno. La sua timidezza, si diceva,
non gli aveva permesso di metter su famiglia o di avere relazioni sentimentali con le donne. Sulla sua vita privata s’erano fatte le più disparate allusioni. Parlava con un linguaggio strampalato e antico, ma aveva uno spirito d’osservazione sensibile e profondo.
Nelle calde notti d’estate, dalla piccola feritoia della capannina, Venanzio guardava la luna e le stelle che a grappoli s’accendevano sulla volta celeste.
Allora la sua fantasia galoppava lontano andando a scavare nei recessi della memoria tanti ricordi. Visioni infantili e magiche gli scorrevano davanti; le paure e le emozioni si confondevano con la realtà del presente; le gioie i dolori passati l’assalivano in quel silenzio stregato tra terra e cielo, dove il suo sguardo senza meta vagava. Con struggente malinconia ripensava alla giovinezza, alla guerra, lassù, nelle fredde trincee del Carso, ai patimenti, alla fame, a quelle lunghissime notti di terrore, al viaggio sul treno che fu il primo e l’ultimo della sua vita, a quella sera indimenticabile passata con una di quelle donnine allegre. Gli pareva di risentire in quell’istante il profumo di quel corpo di donna che fu sua quella notte e che non rivide mai più. Allora una sottile nostalgia, un dolore indistinto lo assaliva, ripensando alla vita passata e perfino i più brutti ricordi finivano per sembrargli belli. Le sue labbra si muovevano in un celato sorriso e in quella solitudine mormoravano nomi da tempo sepolti.
La luna crescente riverberava aloni di pallida luce sui rami di una vetrice, formando immaginarie figure. Venazio, come da bambino, rivedeva misteriosi fantasmi. Gli pareva di udire la voce della nonna che gli canticchiava: < sotto il ponte di trallerallera, c’era ‘na vecchia nera nera…>, risentiva i piaceri, le emozioni, gli incubi d’un tempo. Poi immerso in quella pace e nel tepore della terra, che restituiva il calore del giorno, ascoltava incantato il mormorio degli insetti e lo stridio dei grilli che animavano la vita nella notte. Ogni piccolo fruscio lo faceva sobbalzare: pronto scrutava il sentiero poco distante dall’orto per accertarsi che non vi fossero i ladri a rubare i cocomeri o i dorati meloni.

IL TEMPORALE

IL TEMPORALE





…Allora ricordò quell’ultima sera d’angoscia e d’amore, quando sui campi li sorprese il temporale.
Il cielo a ponente era coperto di nubi; sulla Foce, in direzione S.Albino, all’improvviso balenarono i fulmini tracciando intermittenti bagliori violacei. Si alzò un forte vento umido e fresco che investì la campagna e fece piegare i canneti della palude che s’agitavano contorcendosi fino a toccare la superficie increspata dell’acqua. In lontananza, sopra Sarteano, un fulmine attraversò una nube grigiastra e minaccioso brontolò il tuono; lungo lo stradone del Ponte nero, si vedeva un turbinio di polvere, le foglie dei pioppi si staccavano dai rami e in balia della bufera svolazzavano dappertutto, finendo sui campi e lungo la proda del fosso.
Velio guardava le nuvole nere e gonfie di pioggia che sempre più si avvicinavano verso la pianura. Sentì sul viso accaldato i primi goccioloni misti a chicchi di grandine, affrettò il passo, gettò la zappa ai piedi di una vincaia, non rispose ai richiami del cugino Domenico, che a sua volta si era avviato correndo in direzione del casottino vicino alla palude, e s’incamminò per lo viottolo che conduceva alla capanna dove di giorno sostavano i buoi.
L’acqua cadeva a catinelle e il vento sibilava. Lo stollo del piccolo pagliaio dietro la capanna si piegò come un giunco e una ventata più forte lo spezzò; il fieno volò via lontano sparpagliandosi in se stesso, si alzò e si riabbassò trasportato dalla bufera, poi tutto fu avvolto dallo scroscio forte dell’acquazzone.
Ansimando Velio entrò nella capanna, si tolse il berretto e lo scrollò più volte per far cadere l’acqua; i buoi muggirono impauriti dal fragore dei tuoni, dentro c’era poca luce, lentamente volse lo sguardo intorno e si sentì raggelare per un attimo il sangue: sull’angolo, appoggiata con la schiena alla mangiatoia c’era Miria. Lei lo guardò con espressione maliziosa, piena di complicità; quasi impacciato, Velio gli andò incontro: < tu...qui? Oddio come sei bella stasera! > , le disse intanto che la stringeva forte tra le braccia.  < O perché me lo dichi Lelo…o un lo sai ‘l mi’ destino? > e mentre gli diceva queste cose, le sue mani si erano serrate sul suo collo e le sue labbra lo ricoprivano di baci ardenti e caldi sulla bocca, sul viso, sugli occhi che egli chiudeva come un bambino, sentendosi sprofondare in un piacere che gli accendeva un desiderio incontenibile e forte fino al delirio, poi le sussurro:
< Mirini mia...ti amo, tivoglio bene, ti voglio! Ti voglio amor mio, un posso più campa' senza te...scappiamo lontano, non sposà' chel mascalzone... pe' l'amor di Dio! Un lofa', un lo fa'!.
Un bagliore rischiarò per un attimo la capanna. Un tuono fortissimo squarciò l’aria lì vicino. La pioggia batteva cadendo sulle foglie dei gelsi e dei pioppi, sulla tettoia della capanna e scorreva veloce in tanti piccolissimi rivoli lungo la strada, con un rumore corale e triste, simile al mormorio dei canti e delle preghiere recitate la Domenica nella chiesetta del Popolino. Miria con gli occhi socchiusi, respirava l’aria fresca e l’odore forte della terra bagnata: tacevano entrambi assorti nei ricordi e delusi dai sogni che stavano infrangendosi. < Bella! Bella mia bella! > le sussurrava Velio con la voce tremante e disperata, di chi sa di perdere parte della propria vita, poi contraddicendo il suo dolore le disse:
< tu sei la mia vita, Mirina cara >. Dopo un attimo si riebbe, passò la mano sul viso che gli bruciava come avesse la febbre e nuovamente i loro occhi s’incontrarono rispondendo ad un desiderio comune, forte ed insopprimibile, eterno come la vita, come la morte. S’abbracciarono ancora poi, con le mani screpolate e ruvide, Velio le sbottonò la camicetta colorata, scoprendole i seni che apparvero rosei, sodi, immensamente belli. Li baciò ripetutamente, baciò i riccioli biondi che le cadevano sulla nuca abbronzata dal sole; respirò l’odore dolciastro di sudore femminile, simile al profumo del pane lievitato. Entrambi si profusero in accorate carezze, poi trasportati da un ardore profondo che li rendeva in quel momento privi di ogni pregiudizio e paura, appassionatamente s’amarono, coricati sulla paglia, sotto lo sguardo degli occhi grandi e languidi dei buoi.
Intanto il temporale era cessato; lassù, sopra le colline passavano nuvole nere che si scioglievano disperdendosi al vento. In direzione di Chiusi, fin sopra al monte Cetona, l’arcobaleno curvava i suoi iridescenti colori.
<  Lelino caro… io t’amerò per sempre…sarò tua, lo giuro! Sempre!, Sempre,Sempre! >, <  ma allora perché, perché…Miria…? >, le supplicò Velio, <  Oh…Lelo >, sospirò lievemente lei, sfiorandogli con le labbra le dita della mano che gli teneva tra le sue, <  lo sai che un ci posso fa’ gnente, è così! E’ ‘l destino >.
Si strinsero in un ultimo prolungato abbraccio, poi Miria si accertò che nessuno la vedesse e uscì per prima dalla capanna. Caricò sulla testa il cesto pieno d’erbamedica, non si voltò, non voleva far vedere al suo amante le lagrime che le scendevano calde sul viso. Velio sentì un dolore lancinante allo stomaco, la loro separazione era insopportabile, pianse.
Il sole basso penetrava con gli ultimi raggi tra i rami degli alberi bagnati che parevano tinti di porpora. Le foglie gocciolanti si rispecchiavano sull’acqua del fossato che costeggiava la strada. Velio camminava davanti ai buoi tenendoli per i paiali mentre sentiva nelle orecchie un ronzio simile all’eco delle campane; diede un ultimo sguardo verso il fiume nella speranza di vederla ancora. Sui campi già allungavano le prime ombre crepuscolari.

l'ORTOLANO

L’ortolano






La primavera sprizzava luce e colori dappertutto; le api ronzavano posandosi sui fiori di bocca di lupo e sulle rose, che crescendo rigogliose formavano una siepe in prossimità del cancello dell’orto.

I velucchi rampicando ricoprivano la parte posteriore della capanna fin sopra le assicelle del tetto e il biancore delle piccolissime campanelle abbagliava lo sguardo in quell’ora mattutina.

Gosto entrò nella capanna, posò la sporta che conteneva il pranzo sopra un canniccio disteso su due caprette di legno, poste di fronte all’ingresso; tirò fuori dal taschino dalla sottoveste l’orologio e pensò che il padrone da un momento all’altro sarebbe arrivato e lo avrebbe infastidito come al solito. Guardò intorno, e s’accorse che il giorno prima gli arnesi non erano stati rimessi al loro posto; bestemmiò, imprecando contro Gino, l’operaio più giovane, perché non gli dava mai retta. Provò per tutto ciò un senso di rabbia e di fastidio; mentre tra se brontolava, tirò su i pantaloni logori e rattoppati, stringendosi la cinghia. Rimase qualche istante fermo a pensare, volse lo sguardo indietro come volesse ricordarsi di qualcosa che adesso gli sfuggiva poi, prese la zappa ed il ferro per cavare gli asparagi, ed uscì fuori incamminandosi per lo stradellino che conduceva agli appezzamenti coltivati.

L’aria era fresca e si respirava a pieni polmoni; dalla vicina palude giungeva il gracidare delle rane in amore. Sull’orto silenzioso, le ombre pian piano scomparivano mentre il sole si alzava. Lontano, lassù, nei boschi di Monteluce s’udiva solitario il canto del cuculo.

Gosto aveva cinquant’anni; appariva eccessivamente pallido, non ancora vecchio, piccolo di statura e dall’aspetto un po’ malaticcio. Qualcuno diceva che fosse pazzo e il fatto che mostrasse quel viso smorto, quegli occhi penetranti e indagatori che ti scavavano dentro lo faceva pensare. Gran parte della vita l’aveva trascorsa a lavorare negli orti; era nato in una famiglia di contadini, tra quelle più numerose e povere in un podere vicino ad Acquaviva.

Negli intorno al 1920, suo nonno paterno, soprannominato Alcestone, aveva organizzato e condotto le proteste e le rivendicazioni contro i padroni, per i diritti dei contadini.

Le lotte erano state dure e furono seguite da avvenimenti gravi, tanto che a distanza di molto tempo, ancora se ne parlava. Alcestone appariva agli occhi della gente, come il simbolo del riscatto; a lui fu attribuito il merito delle lotte con le quali si cercava di porre rimedio alla miseria e alla angherie fatte dai padroni, i quali non sopportavano l’ardire di Alcestone e finivano tutti per mandargli sempre la disdetta in iscrittura .

Gosto crebbe in quella famiglia perseguitata dalla fame e dai continui traslochi di podere in podere.

Del nonno ricordava tante cose, ma quella che gli era rimasta particolarmente impressa nella sua memoria, era l’odio feroce contro i padroni e i preti. < ‘Sti pretacci >, diceva Alcestone,< sono l’ostacolo più potente per l’emancipazione della classe operaia; sono sempre loro che si schierano dalla parte dei padroni, è…questi ingannatori dalla veste nera…che conculcano nella testa di ‘sti pori cristi tante babbule e pagliacciate! Corvacci neri e rapaci!! >.

Da grande sentì il bisogno di capire meglio e così, grazie all’aiuto di un maestro e alla sua caparbia volontà imparò a leggere e scrivere. Studiava molto, magari senza un metodo o un preciso indirizzo; leggeva tutto quello che gli capitava sotto gli occhi: dai manifesti pubblici, alle storie scritte su piccoli foglietti che si vendevano alle fiere. Conosceva avventurose leggende: I tre Moschettieri, I cavalieri della tavola rotonda ,aveva letto I Promessi sposi e sapeva a memoria molti versi della Divina Commedia.

Il Capitale di Carlo Marx lo aveva letto di nascosto, il libro lo aveva ricevuto da un amico di Montepulciano, quando si erano incontrati alla fiera del ceppo. Quel proletari di tutto il mondo unitevi! Gli era talmente rimasto impresso che spesso lo ripeteva da solo quando lavorava sull’orto.

Insomma, Gosto conosceva tante cose e, al confronto degli altri braccianti, si sentiva un gigante del pensiero. Questo suo sapere lo rendeva diverso dagli altri; spesso con il suo comportamento, suscitava invidia e non poche incomprensioni. Rispondeva a tono a tutti e con aria da sapiente, come fosse un professore in cattedra. Chinandosi sulle praci di ortaggi parlava da solo, come se vi fossero lì, ad ascoltarlo tante persone, invece delle gramigne, che le sue mani strappavano tra i cesti d’insalata e le piantine di peperoni. I suoi discorsi erano pieni di infuocata passione, di roboanti parolone e finivano sempre con feroci imprecazioni contro il Papa, i preti e tutto il clero:

< verrà, verrà l’ora della riscossa, verrà… toniche nere, capi fasciati! >, imprecava continuamente senza nemmeno più accorgersene e quando qualcuno non condivideva le sue idee, gli rispondeva puntandogli l’indice della mano destra:

.

< E’ s’è visto il progresso che hai fatto con tutto il tu’ sape’>, gli rispondeva Gino mentre zappettava la pracella delle melanzane, poi aggiungeva:

< o dille al padrone ‘ste cose…’n vece davanti a lui ubbidisci e dichi sempre: si sor padrone! Va bene sor padrone! Comandi sor padrone! >

< E’ vero…>, si difendeva Gosto, < è vero, mi rimangono in gola le parole che gli vorrei dire, è…se non avessi la famiglia…sentiresti te…ma prima o poi qualcosa succederà! Te lo assicuro.

Quando non era in vena di parlare, cantava; Gosto sapeva cantare, aveva una bella voce limpida e forte come quella di un tenore. Anche nel canto i suoi temi preferiti erano quelli delle lotte per il riscatto del genere umano dall’ignoranza ( così lui diceva); allora intonava la storia dell’anarchico Sante Caserio, ghigliottinato in Francia per avere attentato alla vita del primo ministro, o quella di Ferrer, fucilato da Alfonso XIII, Re di Spagna, perché voleva istituire la scuola per tutti.

< Bravo, bravo Gosto! >,gli dicevano i contadini che passavano di li con i carri e le bestie; altri lo ammiravano per il suo agire e per tutte quelle belle cose che sapeva raccontare. Sta di fatto che Gosto ( Gostino, per gli amici) era un grande personaggio, strano e singolare, conosciuto da tutti ai Quattro poderi.

Il sole splendeva alto sul cielo e strisce di luce filtravano tra i rami dei meli allineati lungo il vialone. Una brezza ristoratrice portava dalla palude odore d’erbe acquatiche e dai folti canneti canti d’uccelli. Dai campi lungo il fiume, giungeva la nenia di una donna e s’udiva la voce di un uomo che incitava le vacche a tirare l’aratro. Infondo all’orto, l’acqua scorreva per i canaletti che scaturivano dal fossato principale diramandosi in piccolissimi rivoli. Le topaceche durante la notte, avevano scavato piccolissime gallerie sul terreno coltivato e l’acqua penetrava dentro a quelle gole assetate e riarse con gorgoglii gravi.

Anche quella mattina, piegato su una prace di asparagi, Gosto gesticolava e parlava da solo: .

GLI ANNI CINQUANTA

I contadini della val di Chiana


R I C O R D I

Gli anni cinquanta





Va laa… gigino porca miseraccia!
Sul viso lo pungomo i tafani
Cola il sudore caldo sulla faccia
Stringe forte l’aratro con le mani.
Lo sguardo tutto ‘l campo abbraccia,
vuol finire oggi e non domani:
Poldo, il bifolco ara il gran podere,
lavora sempre,non sta mai a sedere.


Sono passate più generazioni
Quando la Chiana fu bonificata
Ma son sempre le stesse condizioni
La gente più lavora e più è sfruttata!
Poldo sogna le rivoluzioni…
E che la condizione sia cambiata:
Dopo la guerra e la Costituzione
Avremo pure noi qualche ragione!


Lottano dura contro il “sor padrone”
Conoscendo il diritto del partito
Insultano il fattore”lo scroccone”
Alzan la testa mostrandogli il dito;
Il giovan non vuol fare da coglione,
Da nuove idee sempre più invaghito:
Non vede mai un becco d’un quattrini
Or vuole diventare cittadino!


Come il sole rischiara il mattino
Il contadino fu illuminato
A poco a poco cambiò il suo destino
Accorciando il potere al padronato
La vita migliorò un pochinino
Riposandosi dopo lavorato:
Gli anni cinquanta inizia la riscossa.
E si cantava allor “Bandiera Rossa”!


Nelle campagne s'avverte una scossa,
Troppa era stata la sopportazione
Con gli “scelbini”contro la sommossa,
Sull’aia cominciò la ribellione
Per contrastare dei padron la mossa:
La sera si faceva la riunione:
Il fattore intanto piega il collo,
Sventola la bandiera sullo “stollo”!!





II-Ricordi


Prati fioriti, stoppie e sagginai
Coloravano il piano e la collina,
Cantavano i galli sui pollai
E ribolliva il vin sulla cantina;
Nelle veglie si scordavano i guai
E si cantava in ottava rima:
Ciascuna raccontava i propri mali
Così ci sentivamo tutti uguali!



I ragazzi badavano i maiali
Le donne in casa con la rocca in mano
Nella stalla Poldo accomoda i paiali
E parla con Medeo da Dolciano,
Per saper se i conti sono uguali,
O se ‘l fattore ha raddoppiato il guano:
O quello che accadde giù al moro
Quando Gigi portò la vacca al toro.


Là, per i campi si cantava in coro
Per sprodare nella mietitura,
Per colazione qualche pomodoro
E si scialava poi per la calura;
Del poco tutti facevano tesoro,
Nella speranza della trebbiatura:
Gigione spesso spesso brontolava
E con la Togna in coro bestemmiava!


O, quante storie che si raccontava
D’inverno sulla stalla a quel caldino…
Mentre il foraggio Beppe preparava
La vacca allattava il vitellino.
Di tanto in tanto alla fiera s’andava
Ad Acquaviva o pure al Popandino:
Nana di Golo ch’era buon forchetta
Al Ponte si mangiò una porchetta!


Magari se di pan c’era una fetta
Da padrone fungeva il capoccia
E quando la merenda era ristretta
Col sensale faceva sbimboccia;
In casa era vuota la marmitta
E d’qcquarello era piena la boccia:
I giovani non si davano ragione
E spesso erano liti e ribellione!



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