08/01/10

l'ORTOLANO

L’ortolano






La primavera sprizzava luce e colori dappertutto; le api ronzavano posandosi sui fiori di bocca di lupo e sulle rose, che crescendo rigogliose formavano una siepe in prossimità del cancello dell’orto.

I velucchi rampicando ricoprivano la parte posteriore della capanna fin sopra le assicelle del tetto e il biancore delle piccolissime campanelle abbagliava lo sguardo in quell’ora mattutina.

Gosto entrò nella capanna, posò la sporta che conteneva il pranzo sopra un canniccio disteso su due caprette di legno, poste di fronte all’ingresso; tirò fuori dal taschino dalla sottoveste l’orologio e pensò che il padrone da un momento all’altro sarebbe arrivato e lo avrebbe infastidito come al solito. Guardò intorno, e s’accorse che il giorno prima gli arnesi non erano stati rimessi al loro posto; bestemmiò, imprecando contro Gino, l’operaio più giovane, perché non gli dava mai retta. Provò per tutto ciò un senso di rabbia e di fastidio; mentre tra se brontolava, tirò su i pantaloni logori e rattoppati, stringendosi la cinghia. Rimase qualche istante fermo a pensare, volse lo sguardo indietro come volesse ricordarsi di qualcosa che adesso gli sfuggiva poi, prese la zappa ed il ferro per cavare gli asparagi, ed uscì fuori incamminandosi per lo stradellino che conduceva agli appezzamenti coltivati.

L’aria era fresca e si respirava a pieni polmoni; dalla vicina palude giungeva il gracidare delle rane in amore. Sull’orto silenzioso, le ombre pian piano scomparivano mentre il sole si alzava. Lontano, lassù, nei boschi di Monteluce s’udiva solitario il canto del cuculo.

Gosto aveva cinquant’anni; appariva eccessivamente pallido, non ancora vecchio, piccolo di statura e dall’aspetto un po’ malaticcio. Qualcuno diceva che fosse pazzo e il fatto che mostrasse quel viso smorto, quegli occhi penetranti e indagatori che ti scavavano dentro lo faceva pensare. Gran parte della vita l’aveva trascorsa a lavorare negli orti; era nato in una famiglia di contadini, tra quelle più numerose e povere in un podere vicino ad Acquaviva.

Negli intorno al 1920, suo nonno paterno, soprannominato Alcestone, aveva organizzato e condotto le proteste e le rivendicazioni contro i padroni, per i diritti dei contadini.

Le lotte erano state dure e furono seguite da avvenimenti gravi, tanto che a distanza di molto tempo, ancora se ne parlava. Alcestone appariva agli occhi della gente, come il simbolo del riscatto; a lui fu attribuito il merito delle lotte con le quali si cercava di porre rimedio alla miseria e alla angherie fatte dai padroni, i quali non sopportavano l’ardire di Alcestone e finivano tutti per mandargli sempre la disdetta in iscrittura .

Gosto crebbe in quella famiglia perseguitata dalla fame e dai continui traslochi di podere in podere.

Del nonno ricordava tante cose, ma quella che gli era rimasta particolarmente impressa nella sua memoria, era l’odio feroce contro i padroni e i preti. < ‘Sti pretacci >, diceva Alcestone,< sono l’ostacolo più potente per l’emancipazione della classe operaia; sono sempre loro che si schierano dalla parte dei padroni, è…questi ingannatori dalla veste nera…che conculcano nella testa di ‘sti pori cristi tante babbule e pagliacciate! Corvacci neri e rapaci!! >.

Da grande sentì il bisogno di capire meglio e così, grazie all’aiuto di un maestro e alla sua caparbia volontà imparò a leggere e scrivere. Studiava molto, magari senza un metodo o un preciso indirizzo; leggeva tutto quello che gli capitava sotto gli occhi: dai manifesti pubblici, alle storie scritte su piccoli foglietti che si vendevano alle fiere. Conosceva avventurose leggende: I tre Moschettieri, I cavalieri della tavola rotonda ,aveva letto I Promessi sposi e sapeva a memoria molti versi della Divina Commedia.

Il Capitale di Carlo Marx lo aveva letto di nascosto, il libro lo aveva ricevuto da un amico di Montepulciano, quando si erano incontrati alla fiera del ceppo. Quel proletari di tutto il mondo unitevi! Gli era talmente rimasto impresso che spesso lo ripeteva da solo quando lavorava sull’orto.

Insomma, Gosto conosceva tante cose e, al confronto degli altri braccianti, si sentiva un gigante del pensiero. Questo suo sapere lo rendeva diverso dagli altri; spesso con il suo comportamento, suscitava invidia e non poche incomprensioni. Rispondeva a tono a tutti e con aria da sapiente, come fosse un professore in cattedra. Chinandosi sulle praci di ortaggi parlava da solo, come se vi fossero lì, ad ascoltarlo tante persone, invece delle gramigne, che le sue mani strappavano tra i cesti d’insalata e le piantine di peperoni. I suoi discorsi erano pieni di infuocata passione, di roboanti parolone e finivano sempre con feroci imprecazioni contro il Papa, i preti e tutto il clero:

< verrà, verrà l’ora della riscossa, verrà… toniche nere, capi fasciati! >, imprecava continuamente senza nemmeno più accorgersene e quando qualcuno non condivideva le sue idee, gli rispondeva puntandogli l’indice della mano destra:

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< E’ s’è visto il progresso che hai fatto con tutto il tu’ sape’>, gli rispondeva Gino mentre zappettava la pracella delle melanzane, poi aggiungeva:

< o dille al padrone ‘ste cose…’n vece davanti a lui ubbidisci e dichi sempre: si sor padrone! Va bene sor padrone! Comandi sor padrone! >

< E’ vero…>, si difendeva Gosto, < è vero, mi rimangono in gola le parole che gli vorrei dire, è…se non avessi la famiglia…sentiresti te…ma prima o poi qualcosa succederà! Te lo assicuro.

Quando non era in vena di parlare, cantava; Gosto sapeva cantare, aveva una bella voce limpida e forte come quella di un tenore. Anche nel canto i suoi temi preferiti erano quelli delle lotte per il riscatto del genere umano dall’ignoranza ( così lui diceva); allora intonava la storia dell’anarchico Sante Caserio, ghigliottinato in Francia per avere attentato alla vita del primo ministro, o quella di Ferrer, fucilato da Alfonso XIII, Re di Spagna, perché voleva istituire la scuola per tutti.

< Bravo, bravo Gosto! >,gli dicevano i contadini che passavano di li con i carri e le bestie; altri lo ammiravano per il suo agire e per tutte quelle belle cose che sapeva raccontare. Sta di fatto che Gosto ( Gostino, per gli amici) era un grande personaggio, strano e singolare, conosciuto da tutti ai Quattro poderi.

Il sole splendeva alto sul cielo e strisce di luce filtravano tra i rami dei meli allineati lungo il vialone. Una brezza ristoratrice portava dalla palude odore d’erbe acquatiche e dai folti canneti canti d’uccelli. Dai campi lungo il fiume, giungeva la nenia di una donna e s’udiva la voce di un uomo che incitava le vacche a tirare l’aratro. Infondo all’orto, l’acqua scorreva per i canaletti che scaturivano dal fossato principale diramandosi in piccolissimi rivoli. Le topaceche durante la notte, avevano scavato piccolissime gallerie sul terreno coltivato e l’acqua penetrava dentro a quelle gole assetate e riarse con gorgoglii gravi.

Anche quella mattina, piegato su una prace di asparagi, Gosto gesticolava e parlava da solo: .

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