(Racconto autobiografico anni 1946-1950)
< Nonna, nonnina…rimenamo?>. < io vecchione, lo dico al tu’ babbo stisera che n’ voi badà i maiali! Allotta che tramonti l’sole…>
Scalzo, il viso appiccicoso di cocomero che avevo appena mangiato di nascosto nel mezzo al campo di granturco, perché rubato nell’orto di “Tognone del minestra”, poi ero salito sulla vetrice grande, di fronte al campo di Golo e guardavo lontano fantasticando. Come ali di farfalle giganti, macchie di luce color pomodoro si posavano in fondo ai prati del “Ponte Nero” e a poco a poco che il sole tramontava, i colori assumevano l’aspetto d’erba medica secca, stingendosi pian piano come per incanto.
Veloce come una lepre correvo dentro il fossato ripulito di recente, tentando di acchiappare un fagianotto ferito che non riusciva a volare; sentivo con piacere affondare i piedi dentro la mota calda del fosso che in quel punto scendeva, sfociando sul canale maestro della Chiana. Il fiume, quasi asciutto, esalava un puzzo di cose fradice, di pesci morti e di veglio appassito. Si vedevano sul greto, qua e là grossi gusci di conchiglie rovesciate e spalancati al cielo, che cambiavano colore: dal bianco al viola cangiante a seconda dell’intensità della luce nel momento particolare del tramonto. Ogni volta ne raccoglievo qualcuno e lo portavo a casa, perché mi pareva d’aver trovato sempre quello più bello. Nella ricerca vagabondavo su e giù correndo e affondando le gambe sulla melma giallastra per prendere qualche ranocchia che salterellando andava ad infilarsi sui buchi nascosti trai i giunchi e le canne.
Intanto il sole calva dietro la collina di Montepulciano. Giù, in fondo allo stradone, la nonna radunava i maiali per il “rimeno”. Lo stradone fiancheggiava i campi coltivati” dalla Toniella al Ponte Nero”. Ai lati crescevano robusti pioppi che in primavera, una leggera brezza di vento faceva scendere sui prati una fitta nevicata di peluria bianca.
La via per gran parte della giornata era ombreggiata, là sotto, facevano sosta e merenda i contadini per riposarsi e difendersi dalla calura d’estate. Amavo quei pioppi, erano il mio giornaliero trastullo, ci arrampicavo alla ricerca dei nidi delle gazze ladre e di lassù ammiravo le stoppie, i filari di viti, i campi coltivati a tabacco, il granturco, i canapai, le saggine, e più giù, vicino al fiume, il capannino del vecchio Ermete di Golo che vigilavo l’orto dei cocomeri. Poi sentivo suonare la campana della chiesa “del Popolino”: era l’ave maria, tutt’attorno calava una quiete, una dolcezza di luci, ombre e colori. Di tanto in tanto le voci dei contadini rompevano il silenzio chiamandosi a vicenda e discutendo ad alta voce per organizzare il ritorno ai casolari: Tognone…Maria… Memmo…Giulia…Faustino…Medeo…;si scambiavano i reciproci invita alle veglie, o facevano previsione sul tempo che avrebbe fatto il giorno dopo, o discutevano sulle faccende della giornata. Qualcuno rideva, altri bestemmiavano per causa della discussione avuta col fattore allo scrittoio; poi tanti carri trainati dalle vacche e dai buoi si mettevano in movimento per lo stradone.