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I RACCONTI DELLA CHIANA
I
A Dolciano i lillà fioriti spandevano sul piazzale di fronte all’asilo un intenso profumo. I bambini giocavano facendo il girotondo sotto l’ombra dei tigli; i loro schiamazzi giungevano fin dentro lo studio del Padrone, e si disperdevano tra la villa e i caseggiati della fattoria.
Affacciata alla finestra del corridoio della scuola, suor Fiorinda – la madre superiora -, diceva qualcosa a suor Stella, che si trovava di sotto, davanti al portone d’ingresso dell’asilo. Suor Fiorinda parlava tenendo la mano sinistra sopra le ciglia, per ripararsi dai raggi del sole, che in quel momento si riflettevano sulla vetrata, e con l’indice dell’altra mano faceva cenni in direzione dei bambini.
Poco distante, sul lato destro dell’asilo, il custode dei granai: un omaccione basso e tarchiato con la faccia colorita, fischiettava un motivetto popolare, e intanto spazzava le granaglie sparse qua e là sul pianerottolo d’ingresso.
Accanto ai granai c’erano le stalle dei cavalli; Gigetto, il cocchiere, strigliava Velina, la cavalla morella che doveva attaccare al calesse per la passeggiata mattutina del padrone. Il sole di fine maggio riscaldava l’aria. Dal parco e dai giardini intorno alla villa giungeva a folate l’aroma di resina dei pini e dalle stalle, l’acre odore di letame. Il piazzale era circondato da cipressi e ricoperto da un manto erboso, al centro del quale c’era un pozzo protetto da una grata in ferro battuto che lo ricopriva simile ad una piccola cupola. Le aiuole con i gigli già sfioriti costeggiavano il viale acciottolato che conduceva al cancello principale della villa. Dal pollaio, posto dietro la rimessa di carri e calessi, sotto una tettoia ricoperta da lunghi tralci di vitalbe ; le galline strozzavano i loro scoccodellii mattutini. Giù, di sotto, sulla strada maestra s’udiva lo stridio delle ruote di un carro che avanzavano sul fondo ghiaioso e la voce di un uomo che ogni tanto bestemmiava e spronava le bestie.
La campanella della chiesetta posta all’interno del parco adiacente alla villa, suonò il mezzodì. Un branco di piccioni s’alzò in quel momento dal tetto del granaio e volteggiò sopra le case, scomparendo dietro la collina in direzione di Montevenere.
Suor Stella batte le mani: lesti i bambini si misero in fila uno dietro all’altro ed entrarono nel refettorio. Cesira, la conversa, assieme a suor Concettina, già scodellavano il minestrone fumante.
II
Da un sigaro toscano posato sopra ad un portacenere di terracotta smaltata, fatto a forma di conchiglia, si inanellavano cerchietti sottili di fumo dall’odore forte, spandendo una nebbiolina evanescente nel piccolo studio.
Una vecchia credenza di noce, posta sulla parete di fronte al tavolo, faceva mostra di grossi libri, d’incartamenti messi dentro a grandi cartelle, senza alcun ordine e rilegate con tricciolini di vari colori. Nello scaffale di mezzo c’erano tre uccelli imbalsamati: un germano reale, una gazza, e un martin-pescatore. Quest’ultimo era stato imbalsamato con l’ali aperte nell’atto di spiccare il volo. Nell’angolo sinistro dell’ultimo scaffale, si vedevano una serie di bossoli di cartucce calibro dodici e due scatole di polvere da sparo: una di Balistite e l’altra di Vasdrode; in fondo si scorgeva appena il calcio di una pistola intarsiato d’avorio e, più in là, una stampa ingiallita, raffigurante un capriolo con le gambe distese nel salto, tra i cespugli d’un boschetto. Il tavolo era di noce massiccio, cordonato con intagli lungo i bordi con scene di caccia: le gambe, sempre intagliate, terminavano a zampa di leone e si posavano sopra un tappeto persiano di color rosso-mattone, anch’esso ricamato con figure d’uccelli palustri. Pendeva dal soffitto in perpendicolare sopra il tavolo, un lampadario di ferro battuto, i cui intrecci formavano figure di volatili e teste di cani. La stanza era normalmente chiamata- specie dalla servitù- “il salottino del padrone”; ma in verità non era altro che un piccolo studiolo. Le pareti erano state imbiancate di recente. Sul soffitto, lavorato con stucchi e merletti, c’erano dodici angioletti di gesso, dal pancino grassottello e dal viso rubicondo e roseo, tutti svolazzanti qua e là, in quella che nell’intenzione del pittore avrebbe dovuto assomigliare alla volta celeste: invece pareva una conca di smalto rovesciata. Infine, due poltrone, una per parte ai lati del tavolo, con lo schienale rivestito di velluto damascato con figure di levrieri ricamati a punto doppio. Quando gli scuri della finestra erano socchiusi, si riverberavano sulle pareti strisce di colori tenui e azzurrognoli, dando così l’impressione di stare dentro a un tempietto pagano invece che a una stanza da soggiorno.
III°
Quella mattina era stata impegnativa per il Padrone.
Il fattore gli aveva relazionato l’incontro del giorno prima, quando una delegazione di contadini guidata dal “capolega” , un certo Pierone detto “delle colmate”, conosciuto per il suo carattere scontroso e rozzo, era stata ricevuta nello scrittoio . Il fattore aveva letto l’elenco delle richieste avanzate dai contadini, con aggiunta la minaccia che presto avrebbero iniziato gli scioperi e le lotte. Pierone gli aveva detto che qualora non fossero state prese sul serio le loro rivendicazioni, avrebbero da subito iniziato uno sciopero di tutti i mezzadri, proprio in occasione della mietitura del grano che stava per iniziare in quei giorni.
I contadini chiedevano subito la stipula di nuovi patti agrari e di ridefinire le quote di ripartizione dei prodotti agricoli; insomma, doveva essere posto fine all’iniquo sistema che regolava i rapporti di mezzadria che loro ritenevano ormai superati dai tempi e dagli avvenimenti. Poi Pierone gli disse che la situazione politica, dopo la fine della guerra e la sconfitta dei fascisti, era finalmente cambiata. Il fattore, uomo abituato da sempre al comando, e all’assoluto rispetto, rabbrividiva ogni volta che sentiva dire da Pierone:
< E’ venuta, oh…sor fattore l’ora…, noi comunisti si semo organizzi per lottà e per avè i nostri diritti, ‘n ‘u‘una magnera o ‘nu n’altra, ora bisognarà avelli, un gni pare sor fattore…? >.
Di tanto in tanto, tra una parola e l’altra, infiorava il parlare di risonanti bestemmie. Il fattore, pur essendo abituato a sentirle, adesso, proprio lì nel suo ufficio lo irritavano e gli parevano insulti diretti alla sua persona e sentiva che il mondo intero gli stava crollando addosso.
Lì per lì, non dette troppa importanza all’incontro ma a poco a poco riflettendoci meglio, decise di informare il Padrone. Oddio, pensava tra sé certo…certo…queste cose è necessario che lui le sappia; anche se degli affari che riguardavano i contadini, il Padrone non se n’era quasi mai interessato, anzi quando qualcuno gliene parlava, s’infastidiva fino ad arrabbiarsi. Poi ripensò a quello che era accaduto al fattore del Gualandini, ridotto in fin di vita per le botte prese, a seguito della lite che scoppiò nell’incontro del malcapitato con i capilega e subito si sentì rabbrividire la schiena e un cupo malessere gli entrò sullo stomaco. Una rabbia forte e repressa, mista ad una paura fino allora sconosciuta, gli fece arrossire il naso paonazzo e fatto a forma di peperone.
Dopo una nottata insonne, al mattino verso le nove uscì di casa, attraversò a passi svelti il piazzaletto che separava la fattoria dalla villa: per un attimo i suoi occhi fissarono il roseto fiorito che s’arrampicava sul muro della chiesetta, poi salì la scalinata che conduceva alle stanze della servitù e dalla cameriera si fece annunciare al Padrone.
IV°
Il legnetto scricchiolava lungo lo stradone dei “Quattro poderi”. Il cocchiere di tanto in tanto schioccava la frusta sopra la groppa della cavalla e con la bocca emetteva un fischio strascicato che la bestia riconosceva all’istante.
Dietro al calesse s’alzava una nuvoletta di polvere biancastra che una brezza lieve trasportava ai margini della strada.
I rami di gelso, con le more già mature erano ricoperti di un sottile velo bianco; qua e là, ciuffi di acacie si piegavano dalla parte dei campi lavorati, come volessero rifiutare i miasmi e la polvere dello stradone.
Il calessino oltrepassò un carro trainato da un paio di vacche; guidava il carro un contadino seduto a cavalcioni sul timone, il bifolco strattonava i paiali e incitava le bestie.
Un ragazzo a piedi scalzi correva dietro un branco di maiali; una scrofa cinta all’improvviso attraversò la via davanti al calesse e saltò il fossetto andando di corsa sul campo di bietole rosse.
Più oltre, due donne che portavano ciascuna sul capo un crino pieno d’erba medica; camminavano piegandosi in avanti e parlottando tra loro.
Prima della curva, nei pressi del podere S.Vincenso, lo stradino , un ometto secco e stringato come un albero investito da un fulmine, se ne stava seduto sopra un mucchio di sassi tenendo tra le gambe una grossa incudine ed in mano il martello.
Al passagio del Padrone, l’operaio s’alzò di scatto e salutò con un cenno di riverenza.
< E’ cosi che ci si deve comportare >, disse il Padrone rivolgendosi al cocchiere e continuò:
< dove non regna il rispetto, prima o poi ci sarà decadenza, si! Dico de-ca-de-nza! Ai capito Gigetto? >.
< Ha ragione Sor Padrone, è proprio come dice Lei, anche con le bestie occorrono queste regole: io rispetto la “stellina” e lei mi rispetta, ‘un vede come la comando? >.
Il calesse sobbalzava sopra l’acciottolato, ancora poca strada, poi sarebbe giunto alla palude dove era la casa del guardicaccia.
Il Padrone dopo le ultime parole pronunciate dal cocchiere s’immerse in intrigati pensieri. Ripensò a quello che il fattore gli aveva riferito. Si sentiva smarrito e turbato e un senso d’angoscia e impotenza gli entrò dentro ferendolo.
Tra sè diceva: < perché i miei sottoposti si permettono tanto? Cosa sta succedendo perdio!? E vero c’è stata la guerra, ma cosa c’entra con tutta questa insubordinazione? >.
Poi gli apparve davanti agli occhi, che per i riflessi del sole teneva socchiusi, la figura sguaiata e grottesca di Pierone; < sto’ bolscevico! Sudicio e volgare è lui che attizza gli altri alle rivendicazioni, madonna… che tempi son questi! >.
Dalla tasca della sahriana tirò fuori un sigaro toscano; Gigetto prese il suo accendino che aveva costruito con un bossolo di mitragliatrice, prontamente l’accese e, dallo stoppino di bambagia bianca usci una fiammella che avvolse l’estremità del sigaro biondo.
V°
Le vetrici allineate lungo il vialone con i loro rami spioventi proiettavano aloni d’ombra che si allungavano sul selciato erboso. Il Padrone s’incamminò con passi lenti in direzione della capanna dove erano ancorate le barche.
Sul fossato che costeggiava il viale, le anatre germanate si rincorrevano alzando spruzzi d’acqua che si riflettevano ai raggi del sole. Dai canneti vicini, giungeva la nenia dei canti che le operaie intonavano tagliando la pagliola . Nella palude, le rane gracidavano facendo l’amore.
< Buongiorno sor Padrone >; il guardiacaccia apparve all’improvviso sbucando da un viottolo che conduceva alla voliera e salutò togliendosi il cappello, con un gesto largo del braccio e continuò:
< quest’anno i fagiani nasceranno di meno; i contadini portano poche uova, credo che schiacciano le covate con la falciatrice e che non gli interessi più quell’abbono che Lei Sor Padrone gli ha sempre dato >.
Il padrone s’arrestò davanti alla capanna delle barche ; non ascoltava le parole del guardiacaccia, perché assorto in pensieri che lo distoglievano da ogni minima osservazione di quanto intorno stava accadendo. Dopo alcuni istanti disse al guardiacaccia:
< lasciami solo, stamattina voglio andare da me con la barca >.
Il guardiacaccia si stupì di quell’insolita richiesta,< come >, disse fra se, < il padrone va da solo sulla barca? Lui che vuole essere servito per il più piccolo bisogno! Certo deve essergli accaduto qualcosa di molto importante >.
La barca si mosse oscillando qua e là: il padrone affondava il menatoio sull’acqua con gesti goffi e disordinati; piccolissime onde s’infrangevano al passaggio della barca ai limiti dei canneti.
Con lo sguardo incredulo, il guardiacaccia osservava i movimenti delle larghe spalle del padrone mentre si curvava con ritmo, alzando e riabbassando il menatoio. Dopo poco la barca scomparve, laggiù in direzione del governatoio nascosto tra i folti canneti.
Intanto in prossimità della riva, sotto l’ombra di un pioppo, un rospo intonava il suo rauco gracidio.