14/01/10

LONTANI RICORDI " LA STALLA"


Erano sempre gli stessi discorsi. Accovacciati sull’angolo della mangiatoia, con la sigaretta in bocca parlottavano Bruno e Faustino. La stalla delle vaccine era grande. Dal soffitto pendevano qua e là veli grigiastri di ragnatele e l’acre odore del concio si poteva fiutare in tutto il caseggiato. I vitellini succhiavano avidi con colpetti ripetuti ai capezzoli della vacche. Morello, il toro, ogni tanto emetteva un muggito particolare, forse per ricercare la femmina o perché aveva fame. Passavo molto tempo ad osservare ogni cosa dentro la stalla. I discorsi dei grandi m’incuriosivano e senza farmi sorprendere, spesso ascoltavo di nascosto i loro ragionamenti. Infondo alla stalla c’era la porta d’uscita che dava direttamente sulla concimaia e sul deposito del bottino. Dietro l’anta destra del portone c’era una grande mensola con sopra i cosiddetti”attrezzi del bifolco”: la spazzola, la striglia i pannuccioni con la tasca davanti e tant’altri cose che attiravano la mia curiosità. Ogni tanto Faustino prendeva il forcone e facendolo salterellare sulle mani, divedeva la paglia bagnata da quella asciutta e rifaceva il pagliericcio alle bestie e intanto continuava a parlare con Bruno. <… ma io, caro Bruno, ‘un ci posso fa’ gnente , ormai quel testone s’è ‘nvaghito d’and’à a làvora’ a Firenze che, manco ‘l padreterno lo fermerà; e la mi’ moglie, pare tutta rincitrullita al pensiero che quel citto vada via di casa  >.
Bruno, sempre accovacciato, continuava a fumare una sigaretta dietro l’altra e ascoltava Faustino facendo cenni col capo d’assenso, poi alzatosi di scatto si rivolse verso Faustino dicendo:  <  Eh!...questo avviene dopo che gli hanno inculcato ste’ mode nove…capirai te…, anche la mi citte , oh, un lo sai? Leggono tutte le settimane chel giornale che mi pare si chiami… “Grandotello”? Che c’è tutte chelle figure d’americani con che calzoni larghi che c’entrerebbero drento du’ culi che un fanno altro che l’amore, ai capito...  < E’ vero è vero >, gli rispose Faustino, <  è proprio stosì ‘nvece di lavorà’ micittino, ora voglieno campà a uffo un ti pare? >. In quegli anni. 1946/47, erano molti i giovani contadini che lasciavano il podere per andare in città a fare i più svariati lavori e, anche dai “Quattro poderi” qualcuno era partito per Roma a servizio in case private. I più anziani contestavano quanto avveniva e spesso nelle famiglie s’accendevano animate discussioni che finivano sempre con la condanna dei giovani che non volevano più lavorare la terra. Un muggito più forte del toro morello, interruppe la conversazione tra i due; la bestia aveva avvertito l’avvicinarsi di una vacca in calore. Sul piazzale davanti casa, Venanzio, un vecchio contadino di Francaville aveva portato la vacca alla monta. Vasco, il mio amico corse verso di me, aveva in mano il fiasco del “permanganato” che doveva servire a disinfettare il penè del toro dopo la monta. Quell’operazione ce la condividevamo e quella mattina spettava a Vasco compiere il rito. Il toro, grande e bianchissimo uscì dalla stalla con ripetuti muggiti e soffiando forte; dalle narici gli uscivano vapori fumanti. Bruno lo teneva forte stringendogli le funi vicino al collo e l’accompagnò alla staccionata di legno dove la vacca era stata legata. Il toro, prima fiutò la vacca dappertutto, poi gli salì sopra e la penetrò con un colpo solo. Vasco, già pronto con il fiasco in mano, lesto spruzzò più volte il pene del toro mentre stava ritirandosi. Per noi ragazzi quell’ operazione non suscitava clamore perché l’avevamo vista tante volte sin dalla più piccola età. Dopo che Bruno rimise il toro sulla stalla, s’avvicinò a me e mi disse: adesso Franchino  mungo un bel bicchiere di latte che so’ che ti piace tanto. La mia visita alla stalla era il pretesto ma, in verità m’interessava bere quel latte caldo appena munto.