11/01/10

FAUSTINO


Quel giorno Faustino s’era alzato di malumore. Alle sei circa, un muggito più forte di una vacca lo aveva svegliato di soprassalto interrompendogli un intrigato sogno. Il muggito giungeva dalla stalla, proprio sotto la sua camera.
La moglie, Carola, se n’era accorta ma non aveva proferito parola, conoscendo il carattere piuttosto scontroso del marito, specie nelle prime ore del giorno. Con la coda dell’occhio lo guardava mentre si infilava i rattoppati e scoloriti pantaloni di fustagno e si metteva gli scarponi imbullettati di recente. In quel momento, passò per la testa di Carola la visione e il ricordo dell’altro anno; quando la scrofa cinta dopo aver figliato, aveva schiacciato quattro dei sei maialini appena nati. Al solo ricordo, senti salirgli sul petto un’agitazione e un senso d’angoscia l’assalì, preoccupata per l’esito della figliatura. Pensò immediatamente alla possibilità che la vacca partorisse il vitellino morto o che durante il parto sorgessero complicazioni irrimediabili, come del resto era successo altre volte. Con simili pensieri, Carola sentiva crescere un ansia che gli rendeva impossibile restare più oltre al letto. Appena il marito voltò le spalle ed usci dalla camera, con un rumore metallico degli scarponi che strusciavano sul pavimento, saltò giù da letto e s’infilo la gonnella, che la sera prima di coricarsi metteva ben distesa sopra la cassapanca accanto alla finestra. In quel preciso istante i suoi occhi fissarono la cassapanca, allora ripensò al giorno che con sua mamma erano andate dal falegname per ordinarla, in vista del suo sposalizio e, non ricordò se in quell’occasione fosse stata contenta. Adesso dopo tanti anni e le delusioni subite, non riusciva ad immaginare i giorni felici- se mai ve ne furono- nella sua gioventù.
Con simili ricordi, Carola attraversò il corridoio, si sostenne con la mano destra ai sacchi di granaglie che erano allineati alla parete, allungò lo sguardo all’entrata della grande cucina, appena rischiarata dai tizzoni ancora accesi sul focolare. Sul cantuccio destro del cammino, Faustino cercava di riaccendere il ceppo di legna che durante la notte s'era spento e adesso, dalle ceneri e qualche resto di brace, usciva un filo di fumo biancastro. Dal soffitto, pendevano mazzi di pannocchie scartocciate; il loro colore giallognolo riluceva di tanto in tanto ai riverberi della smorta fiammella. Sulle pareti danzavano riflessi di luce, le ombre sformate ondeggiavano, aloni grigiastri apparivano sulla cucina al passaggio di Carola, ingrandendo la sua figura. Dalle camera accanto, si percepivano appena i rumori di cose rimosse, di sbadigli e il tossire degli altri famigliari che stavano alzandosi. Sotto la panca del focolare saltò fuori all’improvviso un gatto di colore bianco, che aveva passato la notte vicino al calore dei ceppi accesi. Accanto alla cappa del camino, tremolava la fiammella giallognola d’una candela che illuminava il volto ovale e soave di una Madonnina, raffigurata in una stampa ormai sbiadita dal tempo e dalla fuliggine del focolare. Dai vetri appannati della finestra, giungevano dentro la stanza i primi chiarori: il crepuscolo mattutino stava dileguandosi. Dal tubo di scarico dell’acquaio, filtrava l’odore amarognolo della stalla, causato dalla paglia bagnata e fermentata nel giaciglio del bestiame.
Faustino aveva cinquant’anni. Il suo aspetto non era dei migliori: pochi capelli ancora neri, su una testa abbastanza grande rispetto al suo corpo. Aveva le braccia abbronzate e una peluria grigiastra le ricopriva fino a lambirgli i polsi. Piccolo di statura, le spalle curve, lasciavano intravedere quando camminava, i segni della fatica patita e di una vita sofferta dal duro lavoro sui campi. Il viso appassito, solcato da rughe, assomigliava a quello della puzzola; gli occhi erano stanchi, e negli angoli della bocca, s’annidava un’amarezza disperata.
Parlava poco, la conversazione di Faustino con i famigliari era fatta, soprattutto da cenni col capo, da gesta con le braccia, e di si e di no. Tutto quello che sapeva dire lo esprimeva con fatica e con evidente irritazione.
A farlo sposare con Carola,- più grande di lui di otto anni -, ci avevano pensato gli amici dei “Due poderi”, e una zia, la quale tutta la vita “trafficava” per maritate le zitelle e quelle più chiacchierate, tanto che la chiamavano “ la ruffiana della Chiana”.
Da piccolo aveva sofferto la fame. Era nato nel 1892; le condizioni sociali in quel tempo erano a dir poco miserevoli. La sua famiglia molto numerosa, riusciva a mala pena a produrre quel tanto per tenerli in vita. I raccolti del podere erano quasi sempre scarsi, poi la metà era del padrone. Stenti, miseria, umiliazioni e malattie, avevano accompagnato il cammino della sua esistenza. Di pari passo, il suo carattere si era sempre più chiuso in se stesso, rendendo difficile allacciare rapporti con gli altri.
I genitori di Faustino, -Bista e Adalgisa-, ambedue analfabeti, avevano allevato sei figli: quattro femmine e due maschi. L’educazione che gli avevano dato consisteva innanzitutto nell’assoluto rispetto verso il padrone del podere e l’osservanza scrupolosa dei precetti della chiesa: alla messa tutte le domeniche, recitare il rosario la sera in famiglia e ubbidire ai più grandi. Di quella tribolata infanzia Faustino spesso si ricordava.
E anche quella mattina, mentre stava accovacciato sul focolare, con la paura di scendere nella stalla e vedere quello che lui temeva, gli venne alla mente la vecchia Concetta, - la capoccia – che gli diceva:
< o te... mi cittino, se mi porti dieci brocche d'acqua in casa, ti cocio un uovo al tegamino >.
Lesto, il piccolo Faustino portava la brocca piena d’acqua che attingeva al pozzo dietro la stalla delle vacche. Le sue piccole gambe si piegavano sotto il peso, ma stringeva i denti pensando alla ricompensa che la zia gli avrebbe dato.
Sotto il letto sdraiato e con atteggiamento furtivo simile ad un animaletto spaurito, mangiava con avidità quel misero uovo, cotto senz’olio.
Ogni volta che doveva affrontare problemi e situazioni complicate, Faustino ritornava col pensiero all’infanzia e, chissà perché si rivedeva accovacciato sotto il letto e provava la stessa paura di un tempo.
Intanto suo cugino Pietro, il bifolco, addetto ai lavori della stalla, era passato svelto per la cucina senza proferire parola scendendo le scale saltellando.
Faustino s’avvicinò alla finestra, gettò lo sguardo all’angolo dell’acquaio, notò il tegame di coccio colmo di bucce di popone, respirò per un attimo quell’odore dolciastro e un po’ inacidito che gli avanzi emanavano e, lentamente s’avviò per le scale.
Fuori una leggera nebbiolina simile a una ragnatela si trascinava lentamente verso la collina di Montevenere. Il cielo si rannuvolava. In direzione del Porto, si vedeva attraverso lo squarcio d’una nuvola, un pezzo di cielo inondato d’un raggio obliquo di sole. S’annunciava una giornata piovosa in quell’autunno da poco iniziato.
L’aia era ancora disabitata; neanche il gallo era sceso dal bastone del pollaio. S’udiva cupo e ripetuto il grugnito dei maiali che giungeva dallo stallino accanto alla fienaia . Legato alla catena, Bobo, un bastardo peloso con la coda tutta spelacchiata, andava avanti e in dietro girando attorno al pagliaio.
I muggiti della vacca erano sempre più tenui e quando Faustino entrò dentro la stalla, scorse giù in fondo, Pietro che s’agitava come un forsennato bestemmiando a più non posso! Il vitellino era nato morto. Di colpo tutto il casolare si animò: le donne correvano qua e là, senza una meta precisa, gli uomini commentavano dicendo cose strampalate, qualcuno attribuiva la colpa dell’accaduto alle malie che certi vicini avevano fatto da qualche tempo a tutte le bestie vaccine. Intorno si poteva percepire uno smarrimento e un senso cupo di desolata disperazione: la miseria che già si palpava dappertutto, adesso raddoppiava a dismisura e ciascuno pensava ai progetti e a tutte quelle piccole aspirazioni che non sarebbero state esaudite.
Faustino non fece parola. Lentamente uscì dalla stalla e si diresse verso la cantina. La sua mente era annebbiata, e come un automa entrò, e andò a sedersi accanto alla botte dell’acquato . Tutto rattrappito se ne stette nascosto per l’intera giornata, in quell’angusta posizione, con il viso rivolto a terra, gli occhi sbarrati e luccicanti, mentre dalle sue labbra usciva un sottile mormorio:  Zia…, ziaa…, come era buono quell’uovo al tegamino.

Nessun commento: